mercoledì 7 dicembre 2011

Storia di Iomeneo

Iomeneo, antico re di Atene e sacerdote di Febo, era molto devoto al dio e gli offriva molti sacrifici e libagioni rituali.
Accadeva spesso che il dio, quando passava con il suo cocchio del sole su Atene e immergeva la città nella luce dorata del mezzogiorno, fermasse per un poco i suoi cavalli e scendesse a bere un calice di vino con lui, chiacchierando delle cose del mondo che vedeva da lassù, e raccontando i pettegolezzi dell’Olimpo come si fa con un vecchio amico.
Un giorno Febo, messo di buonumore da un paio di calici di vino buono, gli disse:
“Iomeneo è da tanto che ci conosciamo e sei sempre stato fedele ed ospitale. Ho dunque deciso di farti un dono. Io sono un dio, ho grandi poteri: chiedimi ciò che vuoi e l’otterrai”.
Iomeneo aveva passato i quarant’anni, e da tempo vedeva con terrore avvicinarsi il momento in cui avrebbe dovuto lasciare i suoi beni e le sue ricchezze e, come tutti i mortali, trasferirsi nell’oscurità dell’Ade, il regno dell’oltretomba. Non ebbe dunque esitazioni.
“Voglio la vita eterna” disse d’impulso
Il volto del dio si incupì: egli infatti aveva la saggezza e sapeva cosa sarebbe accaduto.
“Ne sei proprio sicuro?” disse all’amico “Hai riflettuto bene sulle conseguenze? La vita eterna è una prerogativa degli dei e non degli umani e per buoni motivi: solo alla saggezza degli dei è dato di saperla gestire.”
Ma Iomeneo vedeva come conseguenze soltanto una vita di agi e di ricchezze che sarebbe durata per sempre.
“Ne sono sicuro” affermò con decisione.
“Per quanto tu sia mio sacerdote e sappia queste cose” disse il dio, “devo ricordarti che per nessuna ragione mi sarà consentito riprendermi il mio dono qualora tu dovessi pentirtene…”
“Non me ne pentirò” affermò sicuro Imeneo
“E allora sia come tu vuoi” disse triste il Dio “ma poi non maledire me quando sarà il momento. Sempre gli umani danno colpa agli Dei per le disgrazie che si procurano con la loro stoltezza. Eppure quando vi abbiamo creato vi abbiamo ben dato la capacità di ragionare e di pensare, ma forse non a sufficienza” e dopo averlo toccato con il frustino con cui sollecitava i cavalli, risalì sul suo cocchio.
Per molti anni ancora Iomeneo ebbe una vita felice, anche se, a un certo punto si accorse che i suoi capelli diventavano grigi, e poi bianchi. All’inizio si stupì, poi capì di avere fatto un errore: egli aveva chiesto al dio la vita eterna, ma non l’eterna giovinezza, dunque sarebbe invecchiato ma non sarebbe morto. La cosa comunque non lo preoccupò più di tanto, almeno sul momento: era ancora forte ed in gamba, Atene a quel tempo era in pace con i suoi vicini e tutto lasciava prevedere che lo sarebbe stata ancora per molto. Non c’era nulla, quindi, di cui doveva preoccuparsi.
Ebbe molte donne e molti figli, ma l’età avanzava e una notte, mentre giaceva insieme alla sua ultima amante, si accorse di non riuscire più a soddisfarla. Capì allora, con tristezza, che anche per lui la vecchiaia era una realtà e che probabilmente la sua vita futura non sarebbe stata facile e piacevole come l’aveva desiderata.
Gli anni passavano, e con gli anni arrivavano i guai dell’età.
Iomeneo ogni mattina si alzava dal suo letto sempre più dolorante e durante il giorno si sentiva sempre più debole.
Un giorno il figlio più grande venne da lui e gli disse:
“Padre, è da tanto che aspetto di prendere il tuo posto sul trono di Atene, ma tu non hai alcuna fretta di raggiungere i tuoi antenati, e mentre tu vivi e regni beato i miei capelli stanno diventando grigi. Abdica, dunque, fatti da parte e lascia che io abbia ciò che mi spetta come diritto di nascita.”
Il padre guardò il figlio, e lo vide come non lo aveva mai visto: aveva ragione, quel bambino che razzolava nel cortile della reggia, quel giovane forte e vigoroso che tirava di scherma con i suoi fratelli, era cresciuto mentre lui non lo vedeva. Ora era diventato un uomo che da tempo aspirava a prendersi le sue responsabilità, e la sua bella testa ricciuta era macchiata qua è là di grigio.
E lui, intento a pensare solo a sé, non se ne era accorto.
Si chiese se, alla fine, non fosse stato egoista, e se nel suo egoismo non si fosse perso il meglio della vita.
Improvvisamente si sentì vecchio e stanco, si alzò dal trono e disse al figlio:
“Hai ragione, prendilo: è tuo”.
Andò nella casa della sua ultima amante, una donna verso la quale provava grande affetto che, ne era sicuro, veniva ricambiato: le raccontò quello che era successo e le chiese ospitalità. Lei gli voleva bene e non le importava se era re o mendicante e fu felice di ospitarlo nella propria casa e nel suo letto.
Gli anni passavano; anche se vecchio e dolorante e privo degli agi della sua reggia, Iomeneo non se la passava poi così male: il figlio, grato per il trono e il potere che (Iomeneo doveva riconoscerlo sia pure a denti stretti) amministrava meglio di quanto avesse fatto lui, gli dava un buon appannaggio che era più che sufficiente per sè e la sua donna. Questa si prendeva cura di lui, gli stava vicino e lo circondava di premure e di affetto.
Ogni tanto Iomeneo ricordava la sua vita passata, le battaglie che aveva combattuto, la sua amicizia con il dio Febo e le risate che si facevano insieme, e lei lo ascoltava e, a sua volta, ricordava i suoi bei tempi, quando era giovane e bella, e gli amanti che aveva avuto e le avventure che aveva vissuto.
Succedeva a volte che, a sentire questi racconti, lui fosse preso da una improvvisa botta di gelosia, ed allora la accusasse di essere una sgualdrina, e lei gli rispondesse per le rime, e allora lui minacciava di lasciarla e di andarsene via per sempre, e lei, furente, apriva la porta e gli diceva “vattene via, vecchiaccio rincoglionito che non sei altro!”, e lui si metteva ad urlare che era il padre del re di Atene e che l’avrebbe fatta decapitare per la sua insolenza ed usciva di casa sbattendo la porta e percorreva di furia la strada che saliva al tempio di Athena e là sedeva su un sasso e stava per ore ad osservare il mare ed il porto del Pireo sognando le isole e le terre al di là del mare, e con la fantasia si spingeva lontano, a raggiungere quelle colonne che Ercole aveva posto a segnare il limite del mondo ed osservare il grande fiume Oceano dove il dio suo amico ogni sera andava a bagnarsi.
E poi, quando il sole si immergeva nel mare al tramonto, ed il cielo era un tripudio di tutte le tonalità del rosso e dell’oro, tornava lento alla casa, e lei era là sulla soglia, gli occhi pieni di lacrime e in viso il terrore che questa volta l'avesse lasciata per davvero, e lui le correva vicino, la abbracciava, la sentiva dolce e morbida tra le sue braccia, e le diceva: “Si, scusami, hai ragione, sono un coglione, ma ti amo”, e lei lo abbracciava stretto, e poi lo trascinava a letto e si addormentavano l’una nelle braccia dell’altro.
Gli anni passavano e portavano tristezza. Gli amici ed i sudditi fidati che Iomeneo aveva avuto pian piano morivano, e lui si era stancato di andare ogni volta ad assistere ai loro funerali, guardare le vedove piangenti, assistere alle pire funebri ed essere guardato con curiosità dai loro giovani figli che si meravigliavano di quel vecchio dall’aria decrepita, e si chiedevano chi fosse mai (Lui, che era stato il re di Atene!). Ma, man mano che amici e conoscenti morivano, non ne arrivavano di nuovi, e così Iomeneo e la sua donna si ritrovarono alla fine senza nessuno, estranei tra la loro stessa gente.
E invecchiava anche lei: man mano che i giorni, i mesi, gli anni passavano i suoi bei capelli corvini diventavano grigi, e poi bianchi, i seni che lui ricordava gonfi e rigogliosi e con i capezzoli che sembravano bucare i morbidi pepli nei quali si avvolgeva, si afflosciavano e pendevano come fichi rinsecchiti sul suo petto incurvato, la pelle diventava un ragnatela di rughe sottili, i morbidi fianchi ed il ventre che lui amava accarezzare lento con dita delicate oramai lasciavano sporgere le ossa del torace e del bacino.
Non per questo veniva meno l’affetto che avevano l’uno per l’altro, ma oramai parlavano poco, tutto quello che c’era da dire era stato detto da tempo, si capivano con gli sguardi, con i gesti, con i lunghi silenzi.
Ogni giorno portava nuovi dolori e poi venne il giorno più brutto, quando lei, alzatasi dolorante dal letto ove oramai trascorreva gran parte del suo tempo, cadde e battè la testa.
Lui pianse e gridò, impotente ad aiutarla, ed accorsero i vicini ed il chirurgo e questi le toccò delicatamente la nuca e poi scosse triste la testa.
Disperato le tenne stretta la mano tra le sue, e continuò a farlo tutto il giorno, rifiutando di mangiare e bere, rifiutando di staccarsi da lei per tentare di infonderle un poco di quella vita eterna che era il suo privilegio e la sua maledizione. Continuò a tenere quella mano rinsecchita tra le sue per tutto il giorno e la notte, a volte entrando in un dormiveglia in cui ricordava fatti, episodi, momenti della loro vita in comune, gioie, dolori, vane speranze, ma da cui si risvegliava ritrovando il dolore e la disperazione della realtà. Finalmente la mattina sentì una lieve stretta della sua mano ed ebbe un attimo di gioia. Ma quando sollevò lo sguardo, vide i suoi occhi fissi ed immobili, per sempre.
Assistette ai funerali ed alla pira funebre come un automa e, in seguito, non ricordò niente di quei momenti.
Ma la vita continuava e tutti i giorni, quando si svegliava, allungava la mano per cercarla nel letto accanto a sè e, non trovandola, ricordava.
E ricominciava l’incubo della solitudine e della disperazione in una casa vuota, in una giornata vuota che si trascinava fino a sera quando Morfeo, il dio del sonno, veniva a trovarlo e portargli il sollievo dei sogni nei quali la ritrovava, ed erano giovani e belli, e facevano l'amore ridendo spensierati.
Poi morì anche il re, suo figlio.
Suo nipote, che lo sostituì sul trono, non lo aveva praticamente mai visto e non provava niente per lui, quindi non vedeva il motivo di togliere dai suoi forzieri la somma destinata al suo appannaggio; d’altro canto la figlia della sua donna, che lo aveva sempre odiato, ora che la madre era morta reclamava la casa per sè.
Fu costretto ad andar via e, per mangiare quel tozzo di pane che ancora gli abbisognava, si umiliò a mendicare per la città e dormire all’addiaccio, guardato con sdegno e ribrezzo ed insultato per il suo sudiciume dai tanti giovani crudeli (lui che una volta si faceva lavare dalle sue ancelle nelle belle vasche del suo palazzo ed ungere con olii profumati).
I mali della vecchiaia non lo risparmiavano: oramai gli sfinteri del suo corpo si erano guastati e con sua grande umiliazione gli accadeva spesso di orinare e defecare senza accorgersene, insozzando i poveri panni di cui si ricopriva e lasciando dietro di sè una scia maleodorante che nessun profumo (posto che potesse permetterselo) sarebbe mai stato in grado di coprire.
Pensava spesso all’orrore della sua situazione: solo, senza più nessuno su cui far conto, senza amici, costretto a umiliarsi e mendicare, guardato da tutti con schifo e ribrezzo e con la prospettiva di una vita che sarebbe durata per sempre mentre il suo corpo sarebbe divenuto sempre meno in grado di funzionare. Forse, pensava con terrore, sarebbe venuto il tempo in cui sarebbe imputridito come i cadaveri, sarebbe diventato uno scheletro che sarebbe andato in giro per le vie di Atene seminando terrore e sgomento, e che avrebbe dovuto nascondersi alla vista dei suoi concittadini e di ogni essere vivente e, dopo essere stato scacciato dalla sua città, sarebbe andato ramingo per il mondo strisciando, a causa delle gambe che avrebbero smesso di mantenerlo.
Aveva smesso di contare gli anni dal giorno in cui Febo gli aveva fatto quel dono che oramai da tempo era divenuto una maledizione, ma era sicuro che avrebbe dovuto essere nell’Ade già da molto tempo. Quel luogo di oscurità e di non vita una volta lo aveva spaventato, ma ora lo bramava con tutte le sue forze, sembrandogli l’unico approdo cui era destinato, un luogo di dolcezza nel quale trovare finalmente la pace e che però, come ad Ulisse la sua Itaca, gli era stato negato.
Tante volte fu preso dalla tentazione di maledire Febo ed il dono che gli aveva fatto, ma ricordava sempre le ultime parole che questi gli aveva detto prima di andar via per l’ultima volta, e si tormentava per non essere stato più saggio.
Ma la saggezza è un dono che arriva agli uomini sempre troppo tardi, quando non sono più in grado di servirsene.
Cosa avrebbe potuto fare? Non poteva darsi la morte: ci aveva già provato e sapeva che avrebbe solo aggravato la sua condizione. Una volta si era trovato ad assistere ad un tumulto in città contro il nuovo re e si era gettato nella mischia: un soldato lo aveva trapassato da parte a parte con la lancia, e lui era sicuro che sarebbe morto, ma le ferite si erano rinchiuse da sole, anche se gli facevano ancora un male terribile. Se avesse tentato con mezzi più drastici, come il veleno o facendo un salto sulla scogliera, c’era il rischio che sarebbe dovuto vivere per sempre con gli intestini spappolati o con la testa danneggiata in un orrore ancora più grande della sua condizione attuale.
Poi un giorno, mentre si dibatteva in questi tristi pensieri, gli venne in mente che Febo era solo uno dei tanti dei dell’Olimpo. E se avesse tentato di rivolgere la sua preghiera ad un altro di Essi? Avrebbe avuto il coraggio, questi, di sfidare il potente dio del sole? Alzò gli occhi e, quasi come ispirazione, ecco là sulla rocca il tempio della dea Athena, la sorella di Febo, quella che più di tutte gli era vicina e che avrebbe potuto intervenire in suo favore.
La salita, facile quando era giovane, fu dura e lenta a causa della sua debolezza e delle gambe tremanti. Giunse al tempio che il sole era tramontato ed il rosso del tramonto sfumava nell’indaco che preannunciava la notte.
La statua della dea di oro e di avorio riluceva agli ultimi raggi. Si stese davanti ad essa, faccia giù in segno di umiltà ed elevò alla Signora della notte, della lune e delle stelle, una muta preghiera mentre la stanchezza faceva presa su di lui e cadeva in un sonno profondo.
Si risvegliò al suono di una voce, potente nella sua testa:
“Alzati, Iomeneo, vieni fuori”.
La voce continuava con il suo comando imperioso, ed egli si levò a fatica, il corpo fragile e rinsecchito, e piano piano uscì dal tempio.
Davanti a lui il cielo rifulgeva di stelle scintillanti e palpitanti sullo sfondo di velluto nero ed una luna piena dalla luce abbagliante illuminava la città addormentata ai suoi piedi e si rifletteva nel mare in una lunga scia candida. Tutto era pace, e solo qualche frusciar di fronde causato dalla lieve brezza che veniva dal mare ed un lontano cri-cri di una cicala rompeva l’assoluto silenzio che scendeva nel suo animo e gli dava pace e ristoro.
La voce parlò di nuovo, ed il tono era imperioso ma tenero, dolce, come quello di sua madre, cui non pensava oramai da tanto tempo.
“Ho ascoltato la tua preghiera Iomeneo, e voglio esserti di aiuto perchè sei un uomo buono e giusto. Ma nemmeno io posso disfare l’opera di mio fratello”.
“Però” riprese la voce mentre nell’animo del vecchio cadeva la delusione “Posso esaudire qualunque altro desiderio. Dimmi dunque, a parte la morte che desideri, cos’altro posso donarti?”
Già, cos’altro? Avrebbe potuto chiedere di riavere la sua giovinezza ed il suo vigore, oppure la sua donna e la vita che aveva lasciato tanto tempo prima, o il suo regno e le comodità che avrebbe goduto per sempre... Ma mentre vagliava tutte queste tra sé cose scoprì che, in fondo, esse non importavano e che probabilmente non avevano mai avuto una reale importanza.
No, quello che desiderava veramente, dopo tante battaglie e fatiche come essere umano, era il riposo perpetuo ed avere per sempre la pace e il silenzio di quella notte, di quella luna, del suo mare, e della sua terra che giaceva ai suoi piedi addormentata.
Non fu dunque molto sorpreso quando sentì che il suo corpo si irrigidiva, diventava duro come il legno, e le braccia si alzavano verso il cielo ed i piedi si fissavano e radicavano nel terreno. Mentre foglie e rami gli spuntavano dalle braccia e dal corpo, aprì la bocca in un sorriso di gioia e di ringraziamento alla dea che risplendeva lassù, ed il suo sorriso fu assorbito e divenne parte della rugosità del tronco dell’albero di ulivo in cui essa lo aveva trasformato.

Se doveste andare in Grecia e visitare Atene ed il Partenone, dopo aver visto le sue immense e spettacolari rovine volgete lo sguardo sull’abbagliante visione del mar Mediterraneo e godete dello splendido panorama che si vede da quel luogo. Poi guardate alla vostra destra e noterete, un pò discosto dal tempio, un albero di olivo grande e dal tronco rugoso, spaccato e tormentato dal tempo.
Se chiederete alla vostra guida, essa vi dirà che è un albero che sta lì da tempi immemorabili e che ogni volta che è stato abbattuto o bruciato è sempre rispuntato nello stesso posto e ogni estate ha dato i suoi frutti. Parlerà anche di un’antica leggenda, secondo la quale una volta quell’albero era un uomo, ma vi dirà anche che si tratta di cose del passato, che oramai nessuno ricorda più.


(Nota dell’autore: per quanto il racconto abbia lo stile di un racconto mitologico, esso è completamente farina del mio sacco e non fa riferimento a nessun mito dell’antica Gracia, perlomeno per quanto io ne sia a conoscenza, e per la verità non sono neanche sicuro che vicino al Partendone vi sia un qualche albero di ulivo.
Il nome del protagonista, inoltre, è stato scelto a caso, per quanto sia venuto a conoscenza che tra i mitici fondatori della città di Lecce vi sarebbe anche un tal Iomeneo, il cui nome sarebbe anche su una iscrizione della Porta Rudiae di quella città.
Si tratta di una pura coincidenza: quando ho scritto il racconto non conoscevo quel nome e sono sicuro che tra i due Iomeneo non c’è neanche un lontano rapporto di parentela.)
Santo Cerfeda

domenica 13 novembre 2011

Benvenuti a Spannung


Un saluto a tutti gli amici del corso di scrittura. Come mi era stato chiesto ho creato questo spazio per tutti noi per poter condividere e commentare i nostri lavori. Spero che il risultato sarà di vostro gradimento. Le funzioni disponibili per il momento sono quelle classiche di un blog, vale a dire la possibilità di pubblicare i post e di commentarli per tutti i partecipanti al corso. Qualora ci fosse la necessità, potremmo aggiungere delle altre funzionalità. Attendo i vostri commenti e i suggerimenti.

A presto,

Shahab